Le mascherine prodotte a Mirafiori non convincono neppure gli stessi operai Fiat
FCA è stata tra le poche aziende riconvertite per produrre dpi che hanno ricevuto una commessa.
Nella puntata di Report di lunedì 11 gennaio su Rai 3, si è parlato della gestione dei rifornimenti dei dispositivi individuali di protezione e sui presunti legami del Commissario per l'emergenza Coronavirus Domenico Arcuri con alcune società.
CuraItalia con clausola impossibile
Il programma, condotto da Sigfrido Ranucci, ha ripercorso la vicenda partendo da marzo quando in piena emergenza Covid-19, Invitalia (Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti) - il cui amministratore delegato è Arcuri - assegna un finanziamento a fondo perduto di 50 milioni di euro a 130 aziende, 80 delle quali si riconvertono per produrre mascherine. È una delle misure del decreto Cura Italia, ma c'è una clausola: la riconversione deve avvenire entro 15 giorni dall’ottenimento del finanziamento. Ma un altro particolare che salta fuori dopo poco tempo è che molte delle aziende impegnate nella riconversione non hanno mai ricevuto una commessa ufficiale.
Senza commessa e con tempi strettissimi
Lo sa bene Maurizio Corazzi, Ceo di AlterEco, azienda che non solo non ha mai ricevuto alcuna commessa, ma non essendo riuscita a terminare la riconversione entro i tempi stabiliti dovrà anche restituire il finanziamento. E non è un caso isolato: anche altre aziende che non sono riuscire a rispettare i tempi per la riconversione, dovranno restituire il finanziamento e vendere le mascherine prodotte finora all’estero.
Ma l'Italia allora da chi compra? Arcuri aveva dichiarato che la sua struttura non acquista più mascherine dall’estero e nemmeno dalla Cina. Eppure l'inchiesta di Report mette in luce tutt'altra storia: dal sito del commissario emerge che l’ultimo acquisto di mascherine cinesi è stato fatto l’11 settembre.
A Torino il caso FCA
FCA è una delle aziende che invece ha ricevuto la commessa in via diretta. Ma Arcuri si è accordato anche con altre 5 aziende, per commesse per un valore complessivo di 200 milioni di euro. Le cinque aziende sono Parmon, Marobe Triboo, Grafica Veneta, Mediberg e Fab Spa che avrebbero dovuto 660 milioni di pezzi.
Le mascherine "che puzzano"
FCA ha quindi ricevuto macchina e materia prima dallo Stato e ci ha messo forza lavoro e spazi impiegando circa 150 dipendenti, alcuni dei quali erano in cassa integrazione. "Siamo nati per fare auto e adesso facciamo mascherina, ma le auto tanto non le compra più nessuno e facciamo più soldi così": i lavoratori davanti alla porta 33 di Mirafiori hanno fatto buon viso a cattivo gioco, ma interrogati sulla qualità del prodotto non hanno avuto mezzi termini: "si sfaldano", "si riempivano di lana dopo due ore", "puzzavano di colla", " c'è stata gente intossicata".
Eppure le mascherine sono state distribuite nelle scuole dove i bambini hanno iniziato a lamentarsi, così i genitori che leggendo che si trattava di un dispositivo offerto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri si erano dapprima fidati, hanno acquistato altri dispositivi più sicuri. Eppure, per il Commissario quelle mascherine erano solo da tenere un p0' all'aria e anche FCA conferma: non si tratta di materiali nocivi per la salute.
Polemica sulla puzza a parte, ce l'hanno fatta a produrle i 660 milioni di mascherine? Nessuna delle aziende fornisce il numero esatto di dispositivi, tranne Mediberg (7.030.800 pezzi), anzi tra queste, la Marove a luglio ha dovuto mettere in cassa integrazione 246 lavoratori. Il motivo? La commessa pare sia stata bloccata perché alcuni campioni non erano conformi.
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