Crisi climatica, è il momento dei vini di montagna
Il presidente di Coldiretti Torino, Bruno Mecca Cici: "Stiamo assistendo a una nuova opportunità per l’agricoltura di montagna"
La crisi climatica spinge i vini della montagna torinese. La produzione 2023 dei vini alpini delle vallate torinesi lascia ben sperare. Qui non si stanno verificando le grandinate distruttive che devastano i territori collinari del Piemonte e che hanno creato danni anche sull’Erbaluce e sulle colline chieresi. La qualità dei grappoli promette bene. Già la vendemmia del 2022, con la sua estate così calda, è ricordata come un’ottima annata da fare invidia ai territori tradizionali dei grandi vini piemontesi. E ora sembra proprio che una nuova era climatica spinga i vini alpini e pedemontani verso una qualità un tempo sconosciuta.
«Possiamo parlare di rivincita dei vini di montagna – osserva Manuela Fassio, coordinatrice della commissione vitivinicola di Coldiretti Torino - Il cambiamento climatico apre una prospettiva nuova per una viticoltura che ha sempre lottato con le temperature basse e con le difficoltà ad arrivare alla completa maturazione dei grappoli. Oggi i nostri rossi e i bianchi alpini possono giocarsela con tutti gli altri vini raggiungendo alte gradazioni e contenendo l’acidità. Addirittura si assiste a vendemmie precoci proprio per evitare gli eccessi che potrebbero compromettere i profumi piacevoli che rilasciano al palato».
I vini di montagna sono stati quasi tutti riscoperti e promossi da pochi anni. Si tratta quasi sempre di tenaci produzioni di nicchia o addirittura di scommesse di viticoltori che hanno riscoperto e ripiantato varietà che si ritenevano scomparse.
Dal Carema, il nebbiolo che si coltiva nelle pergole sorrette dai “pilun” di pietra all’imbocco della valle d’Aosta, all’antico Avanà della valle di Susa, tradizionalmente presente nella stretta tra Giaglione, Chiomonte ed Exilles; dal Becuet, riscoperto nella media valle di Susa al bianco Baratuciat ultimo ritrovato all’imbocco della stessa valle; dall’Erbaluce delle morene canavesane e dalle uve a bacca rossa della fascia pedemontana tra Frossasco e Pinerolo fino ad arrivare a quel capolavoro di vitigno impervio che è il Ramìe coltivato sui versanti quasi a strapiombo all’imbocco della val Germanasca.
Tutti questi vini, fino agli anni ‘2000, erano a bassa gradazione, dal sapore acidulo, spogli e di pronta beva. Queste uve antiche venivano mescolate ad altre uve tradizionali piemontesi, come l’uva barbera, per conferire più gradazione. Oggi sono vini che raggiungono i 14 gradi, vini di corpo e da invecchiamento, con qualità da fare invidia ai cugini di Langhe e Monferrato e sono il lato positivo del cambiamento climatico che sta aggredendo ovunque l’agricoltura e che sta danneggiando anche la viticoltura collinare.
«Stiamo assistendo a una nuova opportunità per l’agricoltura di montagna – sottolinea il presidente di Coldiretti Torino, Bruno Mecca Cici – Un’occasione che non possiamo farci sfuggire. Ma stiamo parlando di una viticoltura che è praticata su terreni che spesso non sono accessibili con i mezzi agricoli, dove lavorazioni e trattamenti devono essere eseguiti a mano e dove le superfici arrivano a 100-200 metri quadrati per vigna, quando va bene».
Per accompagnare il nuovo corso di questa viticoltura eroica, Coldiretti Torino propone di «investire più risorse nella promozione delle denominazioni locali e nella conoscenza dell’enogastronomia delle valli ben rappresentata dal sistema degli agriturismi Terranostra di Campagna Amica. Attuare una normativa sul riordino fondiario per permettere di aggregare e coltivare terreni di cui non si conoscono nemmeno più i proprietari. Modificare i disciplinari di produzione per adattarli alle nuove condizioni. Creazione di nuove infrastrutture sostenibili che permettano di raggiungere le vigne in quota. Sostegni per le aziende che praticano viticoltura e vinificazione in montagna. Ridurre il numero di animali selvatici che colpiscono i germogli e i grappoli maturi».