Furbetta del cartellino timbra, esce e va a lavorare da un'altra parte: condannata
La donna, che ha 63 anni e lavora in àmbito sanitario, dovrà anche risarcire il datore di lavoro con 10mila euro.
Smascherata e condannata un'altra furbetta del cartellino: timbrava al lavoro, poi usciva di nascosto e andava a lavorare (in nero) da altre parti. Quindi, verso fine giornata, tornava per timbrare l'uscita. Un escamotage che metteva in pratica ogni mercoledì pomeriggio. E che non è passato inosservato, a tal punto da giustificare una segnalazione al 117 della Guardia di Finanza.
La più "furba" di tutti
Teatro della pantomima, poi tramutatasi in truffa aggravata, un laboratorio bio-medico. Protagonista una tecnica di 63 anni che, evidentemente, si considerava più intelligente di tutti gli altri ed aveva escogitato questo sistema per guadagnare sia lo stipendio pieno e regolare, sia l'arrotondamento del secondo lavoro (ma in orario d'ufficio!). Fatto sta che la disonesta ultrasessantenne ha imbrogliato i suoi datori di lavoro per ben 23 settimane consecutive (dal 15 febbraio 2017 al 30 marzo 2018) prima di essere scoperta dalle Fiamme Gialle. I finanzieri, tramite appostamenti, hanno appurato l'illecito comportamento della lavoratrice ed hanno messo fine all'imbroglio. Ora, dopo un paio d'anni abbondanti, la vicenda è resa pubblica e pubblicabile dall'iter processuale (il pm titolare dell'indagine è la dottoressa Laura Longo). Non è il primo caso del genere che si verifica, e curiosamente sempre in àmbito medico-sanitario: l'ultima volta era stata una dottoressa con la passione per il running, che si allontanava dal posto di lavoro per correre al Parco della Pellerina.
Seconda sentenza avversa
Il verdetto di questi giorni è già il secondo pronunciato dai giudici, quello di Appello, perché l'imputata ha fatto ricorso dopo il Primo grado. Anche lì aveva perso la causa, subendo una condanna a un anno di reclusione (pena sospesa ovviamente). Credeva di poter ribaltare l'esito della sentenza ma le è andata male, anzi: ci ha pure rimesso poiché adesso la condanna è diventata un anno e sei mesi (con risarcimento al datore di lavoro pari a 10mila euro). Cade invece l'accusa di truffa per aver usufruito di alcuni permessi previsti dalla Legge 104 (assistenza a genitori in difficoltà). Anche in questo caso l'accusa sosteneva che la donna si assentasse dal lavoro con la "scusa" della 104 per andare a lavorare altrove. Ma è risultato impossibile dimostrare che, comunque, in quelle occasioni non si prendesse anche cura della madre. Nella sentenza si legge fra l'altro che "(omissis) si procurava ingiusto profitto corrispondente alla porzione di retribuzione conseguita in difetto di prestazione lavorativa, con pari danno per l’Asl Città della Salute".